Un’operazione ad ampio raggio è stata eseguita nella mattinata odierna dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale (TPC), impegnati tra Calabria e Sicilia nell’esecuzione di 11 misure cautelari – due in carcere e nove agli arresti domiciliari – emesse dal gip del Tribunale di Catanzaro su richiesta della Direzione distrettuale antimafia.
Secondo l’ipotesi accusatoria, e fatte salve le verifiche processuali e la presunzione di innocenza, gli indagati farebbero parte di un’associazione per delinquere finalizzata al depredamento sistematico di siti archeologici, al deturpamento di aree protette e al traffico illecito di reperti, con condotte aggravate dall’articolo 416-bis.1 del codice penale per il presunto collegamento con la cosca Arena di Isola Capo Rizzuto. Parallelamente all’esecuzione delle misure cautelari, sono state effettuate 12 perquisizioni nelle province di Crotone, Catania e Messina, con il supporto dello Squadrone Eliportato “Cacciatori”, dell’8° Nucleo Elicotteri di Vibo Valentia e dei Comandi provinciali territorialmente competenti.
“Siti archeologici saccheggiati in modo sistematico”
L’indagine, avviata nell’ottobre 2022 dal Nucleo TPC di Cosenza e conclusa nell’autunno 2024, ha ricostruito una lunga sequenza di scavi clandestini compiuti in alcune delle aree archeologiche più rilevanti della Calabria, tra cui il Parco archeologico di Scolacium a Roccelletta di Borgia, l’antica Kaulon a Monasterace, Capo Colonna a Crotone e diversi terreni privati nel Crotonese. Secondo gli inquirenti, tali siti sarebbero stati “saccheggiati in modo costante e programmato” da una squadra di tombaroli strutturata su più livelli, composta da scavatori materiali, intermediari e ricettatori, inseriti in un sistema descritto come radicato, coordinato e altamente operativo.
Le attività illecite sono state documentate attraverso intercettazioni telefoniche e ambientali, riprese video, servizi di osservazione e sequestri in flagranza. Per eludere controlli e intercettazioni, gli indagati avrebbero utilizzato codici convenzionali per indicare i reperti e gli strumenti di scavo: termini come “finocchi”, “caccia”, “cornici”, “caffè”, “asparagi”, mentre “motosega” sarebbe stato il riferimento ai metal detector.
“Vertici esperti e collegamenti con la cosca Arena”
A guidare il sodalizio, secondo la Dda, vi sarebbero stati due soggetti considerati promotori e coordinatori, profondi conoscitori del territorio e dei siti archeologici, con competenze tecniche “acquisite sul campo”. Sarebbero stati loro a individuare le aree da depredare, organizzare le spedizioni, gestire la filiera di commercializzazione dei reperti e mantenere i contatti con i livelli superiori della rete. L’inchiesta evidenzia anche l’originalità dei reati-fine, rappresentati da furti e ricettazione di beni archeologici, un settore particolarmente redditizio in una regione caratterizzata da una straordinaria densità di siti storici, spesso difficili da controllare in modo continuativo. Secondo l’impostazione accusatoria, l’organizzazione mafiosa di riferimento avrebbe beneficiato dei proventi e dell’infungibile contributo tecnico dei soggetti coinvolti negli scavi, configurando un rapporto funzionale tra criminalità “ordinaria” e contesto mafioso.
“Una risposta dello Stato contro un fenomeno radicato”
L’operazione rappresenta un ulteriore tentativo di contrastare il traffico illecito di beni culturali, fenomeno che da decenni impoverisce il patrimonio storico e archeologico calabrese. Determinante, nel corso delle indagini, è stata la collaborazione della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Catanzaro e Crotone e della Direzione regionale Musei Calabria, che hanno fornito supporto tecnico-scientifico per l’identificazione e la valutazione dei reperti trafugati. Le misure cautelari – nove in provincia di Crotone (di cui due in carcere e sette ai domiciliari) e due tra le province di Catania e Messina – si collocano nella fase delle indagini preliminari. Per tutti gli indagati vale il principio costituzionale della presunzione di innocenza fino a eventuale sentenza definitiva di condanna.
La conferenza stampa a Catanzaro
Nelle dichiarazioni del procuratore Curcio emerge con chiarezza un elemento centrale dell’analisi antimafia: la capacità della ’ndrangheta di intercettare qualunque attività economica in grado di generare valore, anche quando si tratta di settori apparentemente lontani dai tradizionali traffici criminali. “Ormai è un fatto notorio che qualunque attività in Calabria capace di produrre ricchezza, e un certo tipo di ricchezza, quindi anche il commercio di reperti archeologici, finisca per attirare l’interessamento della ’ndrangheta”.
Secondo Curcio, per comprendere fino in fondo fenomeni di questo tipo è necessario andare oltre le singole fattispecie di reato e leggere il modello mafioso nel suo complesso: “Bisogna conoscere a fondo il sistema mafioso. La peculiarità di queste organizzazioni – e non a caso parliamo di ’ndrangheta – è il capillare controllo del territorio e lo sfruttamento di tutte le risorse presenti in una determinata area geografica”. In questo quadro, la distinzione tra criminalità ordinaria e criminalità organizzata tende a sfumare. Gli scavi abusivi, formalmente riconducibili a soggetti non affiliati, diventano parte integrante del sistema mafioso quando avvengono sotto il regime di autorizzazione o tolleranza delle cosche. “Anche la criminalità cosiddetta ordinaria può operare solo se autorizzata o tollerata dall’organizzazione di ’ndrangheta, dal “locale” che esercita il controllo su quella specifica zona”.
I nomi dei destinatari delle misure cautelari
Sono destinatari di una misura cautelare, a vario titolo: Vincenzo Godano; Roberto Filoramo; Giuseppe Guarino; Carmine Minarchi; Michele Nicoscia; Luca Filoramo; Francesco Salvatore Filoramo; Francesco Caiazzo; Nicola Filoramo; Michele Consolato Nicotra; Stefano Rottella.











