All’aula bunker di Lamezia Terme si volta pagina. Dopo dieci udienze e oltre 70 ore di parole dell’accusa, il maxi processo d’appello di Rinascita Scott imbocca il rettilineo che porta al verdetto del filone ordinario. Venerdì scorso il sostituto procuratore generale Antonio De Bernardo ha chiuso la requiem con numeri che pesano come macigni: 209 richieste di condanna e appena 6 assoluzioni. Ora la palla passa al nutrito collegio difensivo, chiamato a smontare, posizione per posizione, l’architettura accusatoria che descrive una ‘ndrangheta vibonese capace di tenere insieme pax mafiosa, affari e relazioni eccellenti. Le parti civili hanno già depositato memorie scritte: si andrà dunque diretti alle arringhe, in calendario da martedì 30 settembre, con un ritmo di tre udienze a settimana (orientativamente martedì, giovedì e venerdì) fino al 28 novembre. Salvo rinvii, la sentenza è attesa entro i primi dieci giorni di dicembre.
Il calendario che decide tutto
Il crono-programma è stretto e impone alle difese un lavoro di cesello: ogni imputato (sono 215 nel filone ordinario) avrà la propria finestra per ribaltare o ridimensionare il quadro. L’aula bunker diventa così il teatro dell’ultima battaglia: dopo la ricostruzione unitaria dell’accusa, toccherà ai penalisti cercare varchi su intercettazioni, collaborazioni, nodi processuali e pesi probatori. Il traguardo è fissato: fine novembre per chiudere le discussioni, primi di dicembre per il dispositivo.
I vertici e la “pax” secondo l’accusa
La richiesta più simbolica resta quella dei 30 anni per Luigi Mancuso, il mammasantissima di Limbadi: figura apicale, per l’accusa, non solo per l’indole carismatica e la capacità di imporre una pax mafiosa, ma per la rete di relazioni ritenute il vero moltiplicatore di potere. Pene massime, fino a 30 anni, anche per storici capibastone del Vibonese: Saverio Razionale di San Gregorio d’Ippona al vibonese Rosario Pugliese, alias “Cassarola” fino ad altri presunti boss della ‘ndrangheta vibonese. Giuseppe Antonio Accorinti di Zungri, Paolino Lo Bianco di Vibo, Domenico Bonavota di Sant’Onofrio. Per i fratelli di quest’ultimo, Pasquale e Nicola, la conferma invocata è rispettivamente a 28 e 26 anni. Nella narrazione della Procura generale, il sistema vibonese regge perché combina forza d’intimidazione, controllo economico e una diplomazia criminale capace di comporre frizioni e indirizzare i flussi.
Gli “insospettabili”
Il capitolo più spinoso riguarda la rete di insospettabili. Per l’ex parlamentare e avvocato Giancarlo Pittelli, già condannato in primo grado per concorso esterno, la Procura generale chiede 14 anni. “Ha usato la toga come un passaporto“, ha sottolineato in aula la pm Annamaria Frustaci, ricostruendo — tra 2001 e 2013 — un reticolo di canali informali, anticipazioni d’ufficio, promesse di incarichi e contatti capaci, per l’accusa, di rafforzare gli interessi del clan Mancuso. Stessa traiettoria severa per Pietro Giamborino, ex consigliere regionale indicato come organico al gruppo di Piscopio: la richiesta è di 20 anni.
Le “divise” nel mirino e il nodo delle fughe di notizie
Tra i 215 imputati compaiono anche le divise. Per Michele Marinaro, ex maresciallo della Guardia di Finanza poi transitato alla Dia, la richiesta è di 10 anni: per l’accusa fu uno dei canali informativi di Pittelli. Per l’ex comandante dei Carabinieri di Catanzaro, il colonnello Giorgio Naselli, la Procura invoca 6 anni (in riforma dei 2 anni e 6 mesi del primo grado). Conferma chiesta a 14 anni per l’avvocato Francesco Stilo. È la zona grigia in cui si intrecciano – secondo l’accusa – segreti d’ufficio, soffiate, progetti immobiliari e pressioni: un terreno su cui le difese cercheranno di convertire indizi in ambiguità, e ambiguità in assoluzioni.
I punti caldi delle arringhe
Da martedì la scena cambia registro. Le difese attaccheranno la coerenza della teoria unitaria della ‘ndrangheta vibonese, il peso dei collaboratori, la catena di custodia delle prove, la rilevanza delle intercettazioni ambientali, i confini del concorso esterno, il tema delle relazioni istituzionali lette come agevolazioni. Proveranno a spacchettare il “sistema” in frammenti non comunicanti, a ridisegnare i ruoli, a contestare i nessi causali tra contatti e utilità mafiose. È la dialettica naturale di qualsiasi processo, non solo di un “maxi”. Il verdetto, atteso entro dicembre, dirà se l’architettura di Rinascita Scott reggerà all’ultimo stress test.



