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4 Dicembre 2025
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Separazione delle carriere? Il vero squilibrio è nelle indagini: un pm troppo forte, un giudice troppo debole

La separazione delle carriere viene venduta come riforma risolutiva, ma il nodo vero resta nelle indagini preliminari. Al giudice arriva un fascicolo già chiuso e fatica a esercitare un controllo reale

Nel dibattito pubblico, la separazione delle carriere tra giudici e Pubblici Ministeri è stata narrata come la riforma risolutiva, la chiave che restituirà equilibrio e terzietà al processo penale. Ma questa rappresentazione, rassicurante e semplicistica, rischia di oscurare il cuore del problema. Perché il malfunzionamento della giustizia italiana non dipende soltanto dalla contiguità professionale tra giudicante e requirente. Dipende soprattutto da uno squilibrio strutturale di poteri, radicato nelle indagini preliminari, che nessuna separazione delle carriere, da sola, potrà sanare.

Il pm come titolare “esclusivo” dell’indagine

Da anni il Pubblico Ministero è divenuto il titolare esclusivo dell’indagine: dirige la polizia giudiziaria, raccoglie gli elementi di prova, seleziona i materiali da inserire nel fascicolo, formula la richiesta di rinvio a giudizio e chiude — da solo — il percorso investigativo. Nulla di anomalo in un modello accusatorio. E tuttavia, nel sistema italiano, questa centralità si è trasformata in una supremazia cognitiva che lascia il giudice privo degli strumenti necessari per esercitare un controllo reale.

Il fascicolo “chiuso” e la lingua unica dell’accusa

Così, al giudice dell’udienza preliminare arriva un fascicolo “chiuso”, il prodotto di un’indagine costruita, filtrata e valutata interamente dalla Procura. Il giudice, che non ha partecipato alla formazione della prova, si trova a dover decidere sulla base di un materiale che parla un’unica lingua: quella dell’accusa. E come ogni essere umano — perché i giudici prima di tutto questo sono — tende naturalmente ad affidarsi alla professionalità e alla valutazione di chi ha lavorato per mesi su quel caso, sia esso un collega o, più semplicemente, un organo dello Stato.

Il “peso magnetico” del rinvio a giudizio

Il risultato è sotto gli occhi di chiunque frequenti le aule di giustizia: la richiesta di rinvio a giudizio esercita un peso quasi magnetico, che spinge verso l’accoglimento più di quanto la fisiologia del sistema richiederebbe. Il giudice preliminare, privo di poteri investigativi autonomi, fatica a rompere questa inerzia cognitiva. E così, troppo spesso, la porta del dibattimento si apre per automatismo, non per scrupolosa verifica.

Quando c’era il giudice istruttore (e oggi non c’è più)

È utile ricordare che non è sempre stato così. Nel modello previgente, il giudice istruttore aveva poteri reali: poteva indagare, interrogare, assumere iniziative autonome. Era un contrappeso interno alla macchina dell’accusa. Oggi questa figura non esiste più e il giudice preliminare ne è soltanto l’ombra. Chiedergli di svolgere un ruolo di garanzia, senza dargli gli strumenti per farlo, è una finzione giuridica. E le finzioni, prima o poi, cedono.

Il punto vero: un giudice forte nelle indagini

Per questo la separazione delle carriere, pur legittima come scelta culturale, rischia di essere un guscio vuoto se non accompagnata da una riforma più radicale: il rafforzamento del giudice nelle indagini. Un giudice che possa verificare, approfondire, contrapporre. Un giudice che non sia spettatore della costruzione dell’accusa, ma presidio effettivo di equilibrio.

La domanda finale

La domanda, allora, è semplice: vogliamo una giustizia che garantisca un vero contraddittorio? O preferiamo un rito che, sotto la veste dell’accusatorio, continua a riprodurre una dinamica sbilanciata e opaca? Se la risposta è la prima — e dovrebbe esserlo — allora il coraggio riformatore non può fermarsi alla superficie. Senza un giudice forte, nessun processo sarà davvero giusto.

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