× Sponsor
10 Dicembre 2025
8 C
Calabria
spot_img
spot_imgspot_img

L’accordo che ridisegna la mobilità sanitaria tra Emilia-Romagna e Calabria: dal diritto alla cura all’obbligo di arrangiarsi

Un patto bilaterale che nasce per “governare” i flussi di cura, ma che rischia di trasformarsi in uno strumento di selezione sociale. Cosa cambia davvero e cosa può accadere ai cittadini calabresi

spot_imgspot_img

L’accordo bilaterale sulla mobilità sanitaria tra Emilia-Romagna e Calabria è stato presentato come un passo di “collaborazione virtuosa”, una via per correggere squilibri storici e riportare ordine in un sistema che da anni registra una fuga costante di pazienti calabresi verso il Nord. Nella sostanza, però, questa intesa somiglia molto più a un tentativo di chiudere le falle senza riparare la diga, scaricando il peso delle inefficienze strutturali su chi, quelle inefficienze, le subisce da decenni: i cittadini.

Il testo è imponente, tecnicamente costruito, minuzioso nei riferimenti normativi, ma nasconde tra le righe un cambio di paradigma che potrebbe incidere sulla libertà di cura, sulla portabilità dei diritti sanitari e, soprattutto, sul futuro della sanità pubblica calabrese.
Un accordo necessario, forse inevitabile. Ma non privo di ombre.

La logica dei tetti: una barriera che non si chiama più “confine”, ma funziona come tale

Il cuore dell’intesa è tutto qui: imporre tetti economici rigorosi alle prestazioni erogate dalle due regioni, distinguendo in modo netto tra attività di alta specialità e attività ordinarie. Su quelle ad alta complessità il riconoscimento resta pieno, ma tutto il resto sarà rigidamente contingentato.

Nella retorica istituzionale questi tetti servono a governare la domanda, a impedire “comportamenti opportunistici”, a riportare equilibrio tra entrate e uscite. Nella realtà quotidiana, però, equivalgono a un messaggio chiaro: le cure fuori regione non saranno più garantite come prima, e i flussi dovranno ridursi. Non per miglioramento dell’offerta calabrese, ma per limitazione delle alternative.

Il rischio evidente è che questo meccanismo produca un effetto perverso: chi può permetterselo continuerà a curarsi altrove, pagando di tasca propria; chi non può, resterà imprigionato in un sistema che ancora oggi non garantisce LEA uniformi, reparti funzionanti, tempi d’attesa accettabili. La disuguaglianza sanitaria potrebbe ampliarsi, non ridursi.

Lo Stato resta sullo sfondo: un arbitro che non arbitra

La parte più inquietante non sta nelle cifre, ma nell’assenza. Da anni la Corte dei Conti e diversi organismi tecnici denunciano l’anomalia dei commissariamenti a tempo indeterminato, che hanno prodotto desertificazione degli organici, blocchi delle assunzioni, ospedali impoveriti, servizi ridotti al minimo. La Calabria è stata trattata come una regione da “controllare”, non da ricostruire. E invece di intervenire sulle cause — il sottofinanziamento, le carenze strutturali, l’incapacità del sistema di reggere il fabbisogno reale — lo Stato sceglie di agire sugli effetti, costruendo con questi accordi una sorta di recinto amministrativo attorno alle regioni più fragili. È una soluzione che sa di resa politica: invece di rimediare alle storture del sistema, si riduce la libertà dei cittadini per contenere la spesa. Una logica capovolta che contraddice l’articolo 32 della Costituzione e tradisce il principio di eguaglianza sostanziale.

Il ruolo dei privati: tra valorizzazioni e opportunità

Di fronte all’imposizione dei tetti, un attore appare destinato a guadagnare spazio: il settore privato accreditato. Il testo dell’accordo distingue infatti in modo molto marcato le produzioni delle strutture pubbliche da quelle private, prevedendo che l’alta complessità dei privati sia riconosciuta, mentre le attività ordinarie saranno sottoposte a regressioni tariffarie in caso di sforamento.

Ma la storia recente insegna che ogni volta che il pubblico si indebolisce, i privati avanzano.
Se il cittadino calabrese dovesse trovarsi di fronte all’impossibilità di ottenere una prestazione fuori regione a carico del SSN, si aprirebbe un mercato parallelo fatto di acquisti privati, percorsi agevolati, convenzioni non dichiarate, migrazione sanitaria pagata interamente.
Una dinamica che rischia di spostare quote consistenti di ricchezza da Sud a Nord, accentuando gli squilibri che l’accordo dovrebbe attenuare.

Il nodo del marketing sanitario: l’impegno che non impegna

Nel documento compare una clausola apparentemente rilevante: un invito alle strutture emiliano-romagnole a non promuovere attivamente la propria offerta in Calabria.
Un richiamo che dovrebbe limitare il cosiddetto “turismo sanitario indotto”. Ma si tratta di una formula vaga, non verificabile, sostanzialmente non vincolante. Non impedisce ai professionisti di ampliare la propria notorietà, non limita la capacità delle strutture di attrarre pazienti con la reputazione costruita in anni di eccellenza, non può ostacolare la comunicazione digitale o il passaparola. È più un gesto simbolico che una misura effettiva. E quando le norme diventano simboliche, a beneficiarne non sono mai i più deboli.

Il rischio degli “effetti collaterali”: residenze fittizie, flussi non monitorabili, nuovi muri invisibili

Ogni politica che restringe una libertà genera inevitabilmente una strategia di aggiramento.
Nel caso della mobilità sanitaria, il pericolo è evidente: migrazioni anagrafiche fuori regione, spostamenti temporanei, nuove forme di “residenza sanitaria” per poter accedere alle cure altrove senza costi proibitivi. Un processo già osservato in Lombardia e Veneto, destinato ora a emergere anche nel rapporto tra Calabria ed Emilia-Romagna.
A ciò si aggiunge un possibile irrigidimento verso i migranti, che spesso accedono a prestazioni in mobilità e che potrebbero essere considerati come fattori di pressione aggiuntiva sui tetti. Non c’è nulla di esplicitato nel testo, ma il contesto politico-economico suggerisce che questa linea possa presto diventare un argomento.

Cosa potrebbe accadere nei prossimi due anni

Il biennio 2025-2027 sarà un banco di prova decisivo. Se la Calabria riuscirà a trasformare l’uscita dal commissariamento in una reale ricostruzione del sistema sanitario, l’accordo potrebbe diventare un ponte verso una maggiore autosufficienza.
Se invece le carenze strutturali resteranno immutate — organici scarsi, reparti chiusi, ritardi infrastrutturali — allora i tetti diventeranno un tappo, non una cura. Un tappo che non fermerà la mobilità, ma la scaricherà sulle tasche dei cittadini, ampliando quella frattura sociale che già oggi separa chi ha i mezzi per curarsi altrove e chi, semplicemente, non può. Il vero punto è questo: non si misura la salute di un sistema dai flussi che riesce a contenere, ma dalla qualità di quelli che riesce a non generare.

Un accordo necessario, ma non sufficiente

L’intesa tra Emilia-Romagna e Calabria rappresenta sicuramente un passaggio storico, perché introduce per la prima volta una regolazione bilaterale così dettagliata sulle cure erogate fuori regione. Ma resta un accordo di confine, più che di sviluppo. Un tentativo di amministrare l’emergenza senza rimuovere le cause dell’emergenza. Mentre le istituzioni parlano di governance, appropriatezza e tetti economici, il rischio è che in Calabria cresca una nuova forma di diseguaglianza sanitaria: quella tra chi può pagarsi il diritto alla salute e chi è costretto ad aspettare. La speranza, l’unica possibile, è che questo patto non diventi un altro muro invisibile, ma l’inizio di un percorso che finalmente restituisca ai calabresi ciò che da troppo tempo è negato: una sanità pubblica che funzioni, vicino a casa, senza dover emigrare per curarsi.

spot_imgspot_img

ARTICOLI CORRELATI

ULTIME NOTIZIE