Marisa Manzini, tra le voci più autorevoli della giustizia calabrese, scuote la platea del Festival del Sud al Valentianum di Vibo Valentia: “La ’ndrangheta è ancora tra noi, è maschilista, soffocante e capace di insinuarsi nella vita quotidiana. Ma non la sconfiggeremo solo con i processi: serve un cambiamento culturale profondo, che parta dai giovani”. La magistrata ha lanciato un appello alla coscienza collettiva: “Non si può soltanto reprimere. Bisogna educare, parlare e far capire che la libertà nasce dal rifiuto della cultura mafiosa”.
Con queste parole la sostituta procuratrice generale della Corte d’Appello di Catanzaro, già in prima linea nelle inchieste contro le cosche vibonesi, ha aperto il suo incontro moderato dal giornalista Pietro Comito, con gli studenti vibonesi nell’auditorium dove ha presentato il suo romanzo Il coraggio di Rosa: storia di una donna che ha ripudiato la ’ndrangheta. Il libro, pubblicato da Rubbettino, racconta il percorso di una donna che rompe le catene familiari dell’omertà e della paura, scegliendo di vivere libera con il proprio figlio, lontana dal giogo criminale.
“Rosa è la ribellione di una donna contro la cultura mafiosa”
«Rosa incarna il coraggio di una donna appartenente a una famiglia di ’ndrangheta – ha spiegato la magistrata – che decide, con forza e determinazione, di allontanarsi per vivere secondo le regole del vivere civile, insieme a suo figlio». Manzini non nasconde la matrice simbolica del romanzo, che affonda le radici nella sua esperienza professionale e personale. «Il problema delle donne all’interno delle famiglie di ’ndrangheta è un tema che mi è molto caro – ha affermato – perché purtroppo la ’ndrangheta è un’associazione maschilista, dove la figura femminile resta sottomessa, suddita, priva di dignità. Raccontare questo alle ragazze serve a metterle in guardia: allontanarsi da chi è legato a contesti mafiosi è un atto di libertà e di sopravvivenza».
Nel romanzo, accanto a Rosa, prende vita un’altra figura femminile: una giudice che lascia il Nord per lavorare in Calabria, spinta dal desiderio di «trasformare questa terra un passo alla volta». Due donne, due destini che si intrecciano nella sfida più difficile: quella di rompere il silenzio.
“Non basta la repressione, serve cambiare la cultura”
Durante il dialogo con Pietro Comito, Manzini ha riflettuto anche sul senso della lotta alla criminalità organizzata oggi. «Le inchieste e i processi sono fondamentali, la repressione è necessaria, ma mi lasci dire quello che penso – ha dichiarato –: non basterà mai la repressione se non cambiamo la cultura. La cultura nostra, di adulti, ma soprattutto quella dei giovani».
«Non usciremo da questa situazione – ha continuato – se non riusciamo a infondere ai ragazzi il coraggio di scegliere la legalità. Devono capire che le regole servono alla convivenza civile, e che vivere secondo una cultura mafiosa, fatta di favori, scorciatoie e violenza, è sbagliato. Se non capiamo questo, il contrasto alla ’ndrangheta resterà sempre insufficiente».
“La ’ndrangheta è vicina a noi. Dobbiamo prendere le distanze”
Nel suo intervento, la magistrata ha ribadito che la ’ndrangheta non è un fenomeno lontano, ma una presenza quotidiana, sottile e pervasiva. «La ’ndrangheta è vicina a noi – ha detto –. Per questo dobbiamo prendere le distanze se vogliamo riaffermare i valori della legalità, che in una società votata all’edonismo spesso vengono calpestati».
Un messaggio che ha toccato il cuore dei tanti studenti presenti, accompagnati da docenti e dirigenti scolastici. «Parlare con i ragazzi è l’unico modo per rompere la catena culturale – ha ribadito Manzini –. Non si può soltanto reprimere, bisogna prevenire, costruendo una coscienza collettiva contro la mentalità mafiosa».
Il ruolo delle donne nella rinascita civile
Tra i temi più sentiti, quello del ruolo delle donne nella rinascita etica e sociale della Calabria. «Le donne possono e devono essere motore di cambiamento, dentro e fuori le famiglie – ha spiegato Manzini –. Non possiamo più accettare che la ’ndrangheta imponga un modello di sottomissione. La ribellione di Rosa è la ribellione di tutte le donne che scelgono la libertà».
Un messaggio che va oltre la letteratura e diventa testimonianza civile. «Raccontare queste storie – ha aggiunto – significa trasmettere speranza e consapevolezza. È questo il senso del mio lavoro e del mio impegno».
L’omaggio del questore Ruperti e l’applauso degli studenti
All’incontro ha preso parte anche il questore di Vibo Valentia, Rodolfo Ruperti, considerato una delle colonne portanti della lotta ai clan vibonesi. La sua presenza ha suggellato il legame tra magistratura e forze dell’ordine, unite nella battaglia per la legalità.
L’evento si è concluso con un lungo applauso del pubblico e degli studenti, colpiti dal tono diretto e appassionato della magistrata. Un messaggio che non è solo un richiamo alla giustizia, ma un invito alla responsabilità collettiva: combattere la ’ndrangheta non significa soltanto denunciare o giudicare, ma cambiare il modo di pensare.