22 Maggio 2025
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Le confessioni del pentito Fortuna: “Io, killer di ‘ndrangheta, vi racconto tutti gli omicidi dei Bonavota”

La storia criminale della cosca, gli omicidi, il controllo sulle estorsioni e i rapporti con i clan: “Ecco chi ho ammazzato e perché. Sono cresciuto con loro, ho ucciso per loro”

Francesco Fortuna, 45 anni, è stato uno degli uomini di fiducia della cosca Bonavota di Sant’Onofrio, un’organizzazione capace di imporre il proprio dominio non solo in provincia di Vibo Valentia ma anche altrove, lungo l’asse Torino-Genova, tra il Piemonte e la Liguria. Il 22 febbraio scorso, davanti al pm Andrea Giuseppe Buzzelli della Dda di Catanzaro, ha fornito nuovi dettagli rivelando segreti inquietanti della ‘ndrangheta riassunti in un verbale illustrativo di 102 pagine molte delle quali ancora omissate. “Ho iniziato ad avere rapporti con i Bonavota perché siamo cresciuti nello stesso paese. Conoscevo bene sia Nicola che Domenico. Nel 1999, insieme a quest’ultimo, ho aperto un’attività nel settore zootecnico, ma era tutta una truffa: prendevamo la merce senza pagare”.

Dalle truffe agli omicidi su ordine del clan

Nel corso del tempo è passato dalle truffe agli omicidi su ordine del clan e alle estorsioni. Arrestato nel 2016 per l’omicidio di Domenico Di Leo, è stato condannato a 30 anni di reclusione. Dopo anni di detenzione, ha deciso di collaborare con la giustizia, rivelando i crimini della cosca. “Nel 2004, il primo omicidio per conto dei Bonavota fu quello di Domenico Belsito. Fu un regolamento di conti per una relazione extraconiugale con la cugina di Nicola Bonavota. Doveva morire per cancellare l’onta sulla famiglia”.

Gli omicidi ordinati e commessi dalla cosca Bonavota

Fortuna ha confessato la sua diretta partecipazione a diversi omicidi. Quello di Domenico Belsito fu il primo e lui aveva appena 24 anni. “Fu deciso dai vertici della famiglia. Io partecipai ai preparativi, ma a sparare furono Andrea Mantella e Francesco Scrugli”. Ancora prima i Bonavota avrebbero ammazzato Alfredo Cracolici, trucidato a San Nicola da Crissa perché “aveva rubato bestiame – racconta Fortuna – ai danni di Antonino Lopreiato. Fu ucciso come punizione. Domenico Bonavota mi raccontò tutto dopo due mesi dall’omicidio.” L’uccisione servì anche come messaggio agli altri allevatori: chi si opponeva ai Bonavota o osava derubarli doveva pagare con la vita.

Qualche anno più tardi identica sorte sarebbe toccata al fratello Raffaele Cracolici. Voleva vendicarsi ma fu ucciso prima “che potesse fare danni”. “Non volevamo espanderci nella zona industriale di Maierato. Il nostro obiettivo era evitare che Cracolici si vendicasse per il fratello. L’omicidio fu deciso durante vari incontri tra Bonavota Domenico, Onofrio Barbieri, Domenico Cugliari e altri.” Dopo la sua morte, le imprese della zona iniziarono a pagare il pizzo ai Bonavota in due tranche annuali.

Fortuna svela il volto spietato dei Bonavota che negli stessi anni avrebbero deciso di uccidere anche un loro affiliato, Domenico Di Leo: “Era ritenuto responsabile di un attentato con bomba a una concessionaria. L’ordine di ucciderlo venne da Nicola e Domenico Bonavota. Io, Andrea Mantella e Francesco Scrugli lo eliminammo”. Gli esecutori utilizzarono guanti in lattice, che furono ritrovati all’interno dell’auto usata per l’agguato. “Non è vero che i crotonesi sono venuti a Sant’Onofrio per aiutarci. Sono stato io, con Nicola Bonavota, ad andare dagli Arena di Isola Capo Rizzuto per chiedere supporto.

La rete criminale e il dominio sulle estorsioni

Fortuna descrive un’organizzazione gerarchica che spaziava dal narcotraffico alle estorsioni su larga scala. “Il 90% degli imprenditori della zona industriale di Maierato pagava il pizzo ai Mancuso di Limbadi. Noi, però, ci prendevamo la nostra fetta”. A pagare i Bonavota erano tutti o quasi. Dai supermercati ai villaggi turistici perché la sfera di influenza della cosca Bonavota andava dalla zona industriale di Sant’Onofrio fino al litorale di Pizzo. Non solo. “Io, insieme a Domenico e Nicola Bonavota, abbiamo estorto denaro a una ditta di Catania che installava tralicci. Ogni mese, ci pagavano 3000 euro di cui 1000 andavano a me.” Anche il settore turistico era sotto il controllo della ‘ndrangheta: “I villaggi turistici di Pizzo erano divisi tra i clan. Ho ospitato persino un boss in latitanza, Peppe De Stefano, nel villaggio Garden. La stanza la trovai grazie all’imprenditore Facciolo, che forse sospettava ma non fece domande.”

I rapporti con le altre cosche della ‘ndrangheta

La cosca Bonavota non era isolata. Secondo Fortuna, aveva legami con i più potenti clan calabresi. Con i Mancuso di Limbadi e, in particolare, con Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni” che “mandava gli imprenditori da noi per le estorsioni”. Per il pentito la famiglia di ‘ndrangheta di Sant’Onofrio era rispettata e considerata alla pari anche dai più potenti casati reggini: dai Morabito ai Commisso passando per i Coluccio e i Pelle. E poi era ramificata a Roma: “Pasquale Bonavota aveva forti interessi economici e rapporti con gli Alvaro. Non eravamo riconosciuti ufficialmente a Polsi, ma le altre cosche ci rispettavano. Potevamo agire senza chiedere permesso a nessuno.

Con le sue dichiarazioni, Fortuna ha aperto uno squarcio sul potere della cosca Bonavota e sui legami tra i clan calabresi. Ma la sua vita, ora, è appesa a un filo e a rivelarlo è lui stesso in una delle oltre 100 pagine che costituiscono i verbali illustrativi confluiti già nel maxiprocesso Rinascita Scott: “Chi tradisce paga. Chi è d’intralcio muore. Chi comanda decide le sorti di tutti.”

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