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Rinascita Scott, da Luigi Mancuso alla “Caddara”: la mappa segreta della ’ndrangheta vibonese secondo la Procura

Nella memoria d’appello, l'accusa ricostruisce l’architettura unitaria delle cosche vibonesi. Al centro della narrazione emerge anche la “Caddara”, simbolo dei rapporti interni all’organizzazione mafiosa

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Nell’ultima memoria conclusiva depositata nel processo d’appello Rinascita Scott, la Procura Generale, rappresentata dai sostituti procuratori Luigi Maffia, Annamaria Frustaci e Antonio De Bernardo, compone un quadro che vuole essere una sintesi organica di anni di indagini, decine di sentenze precedenti, migliaia di pagine istruttorie e un patrimonio dichiarativo stratificato. Il documento — che richiama atti dibattimentali, precedenti giudiziari e i frutti della rinnovazione istruttoria disposta nel marzo 2025 — delinea quella che l’accusa definisce come “l’anatomia della ‘ndrangheta vibonese“: un reticolo di cosche, gruppi e ‘ndrine che, pur radicati nella provincia di Vibo Valentia, avrebbero agito secondo logiche comuni, regole condivise e un collante sovra-territoriale riconoscibile nei rituali del Crimine di Polsi.

Secondo la ricostruzione della Procura, non si tratterebbe di una semplice somma di clan, ma di una struttura federata, dotata — questa è la tesi centrale — di un’autorità locale unificante, sovraordinata rispetto alle singole articolazioni. Quell’autorità, per l’accusa, sarebbe stata impersonata da Luigi Mancuso, figura attorno alla quale ruota gran parte del documento. L’intero impianto, va ribadito, è la rappresentazione dell’accusa, presentata alla Corte d’Appello affinché valuti se farla propria o meno. La sentenza arriverà il prossimo 18 dicembre a sei anni esatti dal maxi blitz che decapitò i vertici della ‘ndrangheta vibonese.

La divergenza dei giudicati: due sentenze, due letture della stessa realtà

La memoria della Procura parte da un dato: le due sentenze di primo grado che hanno giudicato, in diversi procedimenti, parte dei fatti oggi riuniti, offrono letture sensibilmente diverse su ruolo, funzione e portata criminale di Luigi Mancuso.

Da un lato, il filone ordinario di primo grado di Rinascita Scott (Collegio Cavasino) che accolse la ricostruzione accusatoria sul carattere unitario della struttura vibonese e sul ruolo attribuito a Mancuso quale “Crimine del Vibonese”, espressione usata dall’accusa per indicare il referente locale delle regole e delle prassi provenienti dal Crimine di Polsi.

Dall’altro, il processo di primo grado del processo scaturito dall’operazione “Petrolmafie-Dedalo” (Collegio Grillone) approdato a conclusioni significativamente diverse, ritenendo — secondo quanto riporta la Procura — che gli elementi probatori non fossero sufficienti a confermare l’esistenza di una ‘ndrangheta unitaria guidata da Mancuso, né a dimostrare un suo ruolo verticistico in chiave regionale. È su questo punto che la memoria si sofferma a lungo, sostenendo che la seconda sentenza avrebbe “frainteso la portata del capo associativo”, perché — secondo la PG — avrebbe confuso: il concetto di ‘Ndrangheta unitaria come accertato nel processo “Crimine”, il ruolo di Capo Crimine di Polsi, mai attribuito a Mancuso, il ruolo di Crimine del Vibonese, che l’accusa distingue dal vertice reggino. Da questa presunta confusione deriverebbe, secondo la Procura, un errore interpretativo che oggi l’Appello sarebbe chiamato a chiarire.

Luigi Mancuso nella lettura dell’accusa: un ruolo “centrale”, non apicale

Il cuore della memoria è la ricostruzione dell’accusa sulla figura di Luigi Mancuso, definito — sempre secondo la Procura Generale — come: raccordo tra le cosche vibonesi, interprete delle regole del Crimine di Polsi, arbitro dei conflitti interni, garante dell’ordine mafioso nella provincia. Non un “capo dei capi”, non un successore di Antonio Pelle “Gambazza” o di Domenico Oppedisano, ma il soggetto che, per il Vibonese, avrebbe incarnato la funzione di “Crimine locale”. La Procura descrive questo ruolo come “di coordinamento, indirizzo e certificazione”: una forma di potere mafioso non necessariamente operativo sul territorio, ma “riconosciuto”, “legittimato dalla storia criminale della famiglia” e “stabilmente percepito dagli altri gruppi vibonesi”. La sentenza “Dedalo”, secondo la Pg, avrebbe sottovalutato questo aspetto concentrandosi invece su elementi più recenti o su dichiarazioni considerate dall’accusa “frazionabili” ma non inattendibili.

Il nodo della “Caddara”: il pentolone che ribolle sotto Vibo

Tra i concetti più controversi emerge quello di “Caddara”, espressione introdotta nelle dichiarazioni del collaboratore Andrea Mantella. La Procura ricorda che Mantella la descrive come una sorta di camera di compensazione criminale, una “pentola” metaforica nella quale confluiscono i principali referenti mafiosi della provincia. La memoria precisa però — come misura di cautela probatoria — che l’espressione non è mai stata formalizzata in sentenze definitive e non costituisce un istituto codificato della ‘ndrangheta. È, piuttosto, una metafora investigativa, che l’accusa utilizza per rappresentare un dato più ampio: l’esistenza, nel Vibonese, di un luogo (fisico o simbolico) di confronto tra le élite mafiose, contesto in cui — sempre secondo la ricostruzione accusatoria — Mancuso avrebbe svolto un ruolo di relazione e sintesi. La Procura sottolinea che la sentenza “Dedalo” ha scartato la rilevanza di questo concetto, ritenendo le dichiarazioni troppo generiche. L’accusa, invece, sostiene che il valore della “Caddara” non stia nella fedeltà letterale del termine, bensì nella dinamica criminale che descrive.

La tesi dell’unitarietà della ‘ndrangheta vibonese

Uno dei pilastri dell’atto è la ricostruzione del carattere unitario della ‘ndrangheta, come affermato dalla sentenza definitiva del maxiprocesso “Crimine”. Secondo la Procura Generale, questo quadro storico-giudiziario: conferma che la ‘ndrangheta è una sola, non una somma di clan isolati; riconosce al Crimine di Polsi un ruolo di regolatore delle regole comuni; delinea l’esistenza di crimini delocalizzati, autorità intermedie incaricate di rappresentare il potere centrale su specifici territori. In questa mappa, il Vibonese — sempre secondo l’accusa — sarebbe stato rappresentato proprio dai Mancuso, che avrebbero garantito l’allineamento delle cosche locali allo schema reggino.

Da qui deriva l’idea che la vera chiave interpretativa non sia la nicchia territoriale del singolo clan, ma la geometria complessiva di un sistema che, per funzionare, necessita di un soggetto capace di imporre regole condivise e di mantenere “l’esclusività del potere mafioso”, condizione essenziale, per l’accusa, affinché le estorsioni possano concretizzarsi senza conflitti tra gruppi diversi.

Pizzo, il cantiere parrocchiale e la “regia occulta”: un caso-scuola

La memoria porta a esempio l’episodio estorsivo legato alla costruzione del complesso parrocchiale di Pizzo, contestato nel capo A2. Pizzo — si legge nella ricostruzione — è un territorio di frontiera tra tre onde criminali: Mancuso, Bonavota e Anello.
Secondo l’accusa, l’estorsione non avrebbe potuto realizzarsi senza un intervento regolatore capace di evitare scontri tra le tre cosche. Quel ruolo, nella lettura della Procura, sarebbe stato esercitato da Luigi Mancuso, non come mediatore, ma come decisore. La sentenza “Dedalo” definisce queste letture come non sufficientemente provate. La Procura Generale ribatte che la logica complessiva dell’episodio — più che singoli frammenti probatori — dimostrerebbe l’esistenza di un’autorità condivisa.

Il ritorno dal carcere di Luigi Mancuso e l’ordine ritrovato

La memoria attribuisce particolare importanza anche al periodo successivo alla scarcerazione di Luigi Mancuso nel 2012. L’accusa sostiene che la sua liberazione avrebbe ristabilito equilibri interni alla famiglia, ricomposto conflitti emersi durante la sua detenzione e prevenuto possibili escalation di violenza. Diverse intercettazioni acquisite nel dibattimento, tra cui quelle relative alle conversazioni tra Giovanni Giamborino e l’avvocato Giancarlo Pittelli, vengono interpretate dalla Procura come segnali della percezione esterna del ruolo di Mancuso quale figura necessaria alla stabilità criminale della provincia. Le difese hanno offerto una lettura differente delle stesse conversazioni, presentandole come semplici valutazioni soggettive degli interlocutori e non come prova di un ruolo gerarchico reale.

La geografia delle cosche secondo l’accusa

All’interno di questa narrazione emerge la mappa delle cosche vibonesi secondo l’accusa. La Procura descrive un insieme di clan federati, ciascuno radicato nel proprio territorio ma unito nel rispetto di una grammatica criminale comune. Nel documento si osserva come i Mancuso a Limbadi, i Fiarè–Razionale–Gasparro a San Gregorio, i Lo Bianco–Barba–Pardea su Vibo, gli Accorinti a Zungri, i Piscopisani a Piscopio e i Bonavota a Sant’Onofrio rappresentino le principali articolazioni di un organismo unitario, non tanto nella pratica quotidiana, in cui ogni gruppo manterrebbe la propria autonomia, quanto nel riconoscimento di un sistema di regole condivise che per l’accusa risulterebbe indiscutibile.

Il legame con Polsi e la struttura unitaria

Una parte centrale della memoria approfondisce poi il rapporto tra il Vibonese e Polsi. L’accusa insiste sul fatto che questo legame non vada interpretato in senso militare, bensì come riconoscimento rituale. Le cosche vibonesi avrebbero dunque convalidato i propri riti, le proprie doti e le proprie copiate secondo il modello reggino, certificando così la loro appartenenza alla struttura unitaria della ’ndrangheta. La Procura afferma che ciò sarebbe sufficiente a delineare la provincia di Vibo come parte integrante dell’organizzazione nel suo complesso, mentre le difese replicano che la condivisione di ritualità non implica automaticamente un comando unificato né la configurazione di un’associazione sovra-territoriale. Ora la parola passa alla Corte d’Appello, che dovrà stabilire se questa architettura accusatoria, così articolata e ambiziosa, regga alla prova logica e giuridica.

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