Un manoscritto di 35 pagine, verbali fiume e rivelazioni inedite: l’ex killer del clan Bonavota di Sant’Onofrio, Francesco Salvatore Fortuna, sta vuotando il sacco alla Dda di Catanzaro. Dai rapporti con i Mancuso agli affari al Nord, dall’attentato a Pasquale Bonavota alle estorsioni sui lavori pubblici, il collaboratore di giustizia fornisce dettagli precisi sugli assetti di potere della ‘ndrangheta.
L’attentato a Bonavota e le scuse dei Soriano
Tra le rivelazioni più sorprendenti di Fortuna c’è l’inedita storia di un agguato a Pasquale Bonavota nei primi anni ’90. Il bersaglio, in realtà, era Antonio Barbieri, ma nella sparatoria rimase ferito anche Bonavota. Fortuna racconta: “Dopo l’attentato, i Soriano si scusarono con Pasquale e con tutta la famiglia, dicendo che il vero obiettivo era Barbieri”. L’attacco si colloca nel contesto della faida tra gli Accorinti e i Soriano di Filandari, culminata anni dopo nell’omicidio di Soriano Roberto. L’episodio segnò una frattura tra le due famiglie, anche se non sfociò in un conflitto aperto. “La tensione rimase, ma Bonavota non voleva una guerra aperta con i Soriano. Per questo la questione si chiuse con le scuse”, aggiunge Fortuna.
I rapporti con i Mancuso
Dai verbali di Francesco Fortuna affiora una mappa dettagliata di alleanze e gerarchie intorno al clan Bonavota, con il ruolo ben definito di numerosi altri soggetti criminali. In primis, il rapporto con la potente famiglia Mancuso di Limbadi: inizialmente distanti, le due cosche trovarono un’intesa spartendosi affari (come visto per Pizzo) e consolidando legami personali di reciproco rispetto. Fortuna riferisce che Domenico Bonavota nutriva grande rispetto verso Pantaleone Mancuso, detto Scarpuni, al punto da omaggiarlo ogni anno con ingenti regali come 20 quintali di uva. In segno di stima e alleanza, anche Pantaleone Mancuso coinvolgeva i Bonavota nelle proprie estorsioni: quando si trattava di riscuotere tangenti su lavori nel territorio di Pizzo, indirizzava gli emissari proprio da Domenico Bonavota. L’alleanza era dunque così solida che i Mancuso delegavano ai Bonavota la gestione di parte del loro racket. Un ulteriore simbolo di vicinanza è ricordato da Fortuna: Luigi Mancuso (lo “zio” Supremus della famiglia) fornì a Pasquale Bonavota l’auto utilizzata per il suo matrimonio un gesto di riguardo che suggellava anche a livello personale il vincolo tra le famiglie. D’altro canto, come già emerso, Luigi Mancuso fu determinante nel mantenere la pace quando corse voce del presunto complotto di Scarpuni contro i Bonavota, ribadendo la volontà di preservare buoni rapporti e censurando l’eventuale iniziativa bellicosa del nipote.
Il racket sui grandi appalti e il sistema concertato
Le dichiarazioni di Francesco Salvatore Fortuna delineano con precisione le strategie economiche della cosca Bonavota. In particolare emergono i racket estorsivi legati ai grandi appalti e alle infrastrutture. Fortuna spiega che inizialmente non vi erano rapporti stretti tra i Bonavota e i Mancuso, almeno finché non ebbero inizio i lavori di ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, il cui tracciato interessa il territorio di Sant’Onofrio. Da quel momento, le cosche coordinarono le estorsioni sui cantieri: a Pizzo Calabro – zona priva di un clan locale egemone – Mancuso, Anello e Bonavota si spartivano le estorsioni in maniera organizzata
Fortuna descrive un vero sistema concertato: le ditte che ottenevano appalti si rivolgevano al clan di riferimento (in base alla provenienza geografica o ai rapporti pregressi) e questo, a sua volta, si interfacciava con gli altri due per dividere il ricavato. Gregorio Gioffrè, uomo di fiducia di Pantaleone Mancuso (alias “Scarpuni”), fungeva spesso da intermediario in quest’area, curando i rapporti con gli imprenditori e ripartendo le somme estorsive tra Mancuso, Bonavota e Anello. Significativamente, le mire estorsive erano rivolte solo ai lavori economicamente rilevanti – ad esempio la costruzione di complessi residenziali, opere stradali o grandi cantieri – evitando bersagli minori come piccoli negozi o singole abitazioni. Ciò indica una strategia mirata a colpire le attività più remunerative, mantenendo al contempo una certa “tolleranza” verso il commercio locale minore.
Il giro delle estorsioni tra Calabria e Nord Italia
L’ex killer ricostruisce la rete di estorsioni imposta dalla cosca Bonavota. “I soldi delle estorsioni venivano spartiti tra tutti noi, a prescindere da chi avesse materialmente recuperato le somme”, afferma Fortuna. I proventi arrivavano da aziende della zona industriale di Maierato, supermercati e lavori pubblici, con ripartizioni precise tra le cosche. “A Pizzo Calabro le estorsioni erano divise tra i Bonavota, gli Anello e i Mancuso. Chiunque lavorasse su quel territorio doveva pagare”, spiega il pentito, che aggiunge: “Non si trattava solo di denaro, ma anche di assunzioni nelle aziende. Avevamo uomini ovunque”. Tra gli imprenditori coinvolti emerge il nome di un costruttore edile: “Pagava una parte dei suoi utili direttamente a noi, anche per lavori che trovava autonomamente”, racconta Fortuna.
Oltre alle estorsioni, Fortuna rivela che i Bonavota diversificavano i loro illeciti con truffe e investimenti occulti nell’economia legale. Già alla fine degli anni ’90, Domenico Bonavota e lo stesso Fortuna misero in piedi imprese fittizie nel settore zootecnico, acquistando merci senza pagarle per poi rivenderle – una truffa commerciale che consentì di aprire nel 1999 un primo esercizio e nel 2001 un secondo, intestato a un prestanome. Parte dei capitali accumulati vennero successivamente investiti in società apparentemente pulite: Fortuna cita il caso di un’azienda di un imprenditore che lavorava a Milano in cui affluirono soldi di Pasquale e Nicola Bonavota. Intorno al 2000 anche lui e Domenico Bonavota finanziarono la stessa società con circa 50.000 euro, somma poi rientrata con difficoltà, e un ulteriore finanziatore fu Antonio Serratore. Tali operazioni mostrano l’interesse della cosca a reinserire i proventi illeciti nell’economia locale, attraverso prestiti e partecipazioni occulte ad attività imprenditoriali.
I traffici di droga e il ruolo del porto di Gioia Tauro
Fortuna conferma il ruolo della cosca nel traffico internazionale di stupefacenti: “Nel 2013 o 2014 aiutammo un gruppo a far entrare un carico di droga dal porto di Gioia Tauro. Noi Bonavota non ci occupammo dell’importazione, ma mettemmo in contatto questi soggetti con un basista interno, uno che chiamavano ‘Mimmone’”. Il compenso per il favore? 25.000 euro a testa per i capi della cosca. “Era un affare gestito direttamente dai colombiani, ma senza l’appoggio delle famiglie locali la droga non usciva dal porto”.
Nel campo delle relazioni esterne, i Bonavota coltivavano anche legami con cosche di altre province calabresi: emblematico è il rapporto con gli Alvaro di Sinopoli, potente famiglia della Piana di Gioia Tauro. Fortuna ricorda che i Bonavota tenevano a mostrarsi vicini agli Alvaro, al punto che a Natale e Pasqua il gruppo di Sant’Onofrio preparava e inviava centinaia di cesti regalo alle principali famiglie alleate, inclusi gli Alvaro. Ciò significa che il clan Bonavota godeva di fiducia e prestigio sufficienti per interagire con le grandi famiglie di Reggio, fungendo all’occorrenza da appoggio logistico per i latitanti eccellenti. Un altro episodio citato nei verbali vede Vincenzo Alvaro (esponente dell’omonimo clan della ‘ndrangheta) incontrare Pasquale Bonavota a Roma per questioni finanziarie: “Pasquale Bonavota mi chiese se potevo procurargli fideiussioni bancarie per Vincenzo Alvaro”, racconta Fortuna.
Il controllo economico: videopoker, fidi e imprese al Nord
Le rivelazioni di Fortuna tracciano anche un quadro dell’espansione del clan Bonavota fuori dalla Calabria, soprattutto al Nord, in attività di riciclaggio e traffici internazionali. A Genova e dintorni, dove fu catturato prima Domenico Bonavota (nel 2008) e poi Pasquale Bonavota, i clan della ‘ndrangheta reinvestono i proventi del narcotraffico in attività lecite, come ristoranti, alberghi, imprese edili e altri settori economici.
Dai verbali di Fortuna emerge un quadro in cui la cosca Bonavota coniuga metodi mafiosi tradizionali (estorsioni e violenza) con strategie imprenditoriali moderne, spaziando dalle tangenti sui lavori pubblici al business del gioco d’azzardo, fino al riciclaggio internazionale dei profitti del narcotraffico. Uno dei primi business fu quello delle macchinette da gioco e si trattò di un affare milionario secondo quanto riferito dallo stesso collaboratore di giustizia agli inquirenti: “Pasquale Bonavota iniziò con soci napoletani, ma dopo pochi mesi li estromise e prese tutto per sé”. Per evitare tensioni con i Mancuso, vendette il settore a Santo Furfaro mantenendo il 50% degli utili sui locali più redditizi.
L’alleanza con gli Anello e il controllo di Pizzo
Un altro asse fondamentale nei rapporti di potere dei Bonavota era quello con il clan Anello di Filadelfia. L’amicizia fra le due consorterie è di vecchia data: secondo Fortuna risale a quando i rispettivi boss erano giovanissimi, tanto che Rocco Anello, ancora minorenne, rischiò per aiutare Vincenzo Bonavota. In un episodio ricordato dal pentito, Rocco Anello – pur senza patente di guida – si recò in auto a Sant’Onofrio per prelevare Vincenzo Bonavota, all’epoca latitante, e offrirgli rifugio a Filadelfia. Questo aneddoto evidenzia la fiducia e la solidarietà tra i due clan sin dagli anni ’90. In effetti, i Bonavota e gli Anello hanno condiviso territori e affari: Pizzo Calabro rappresentava un’area di cooperazione, dove – in assenza di una cosca locale dominante – entrambe le famiglie (insieme ai Mancuso) dividevano i proventi estorsivi. Fortuna specifica che “Pizzo non era affatto divisa in zone” tra clan rivali, ma chiunque avesse l’aggancio con una ditta coinvolgeva poi gli altri per spartire il pizzo. Durante gli anni ’90, la prolungata detenzione di Rocco e Tommaso Anello aveva permesso al clan emergente dei Fiumara di inserirsi nel comprensorio di Pizzo; ma non appena i fratelli Anello tornarono liberi – e con l’arresto del boss Claudio Fiumara – il controllo del territorio tornò saldamente in mano agli Anello. Da allora, spiega Fortuna, ogni attività tra l’Angitola e lo svincolo autostradale di Pizzo (confine nord del Vibonese) veniva gestita dagli Anello, i quali estendevano la propria influenza fino alla zona industriale di Lamezia Terme, oltre la quale subentravano le cosche lametine. In questo contesto, i Bonavota mantenevano il loro ruolo negli affari su Pizzo come soci degli Anello, beneficiando ad esempio del controllo congiunto – insieme ai Mancuso – sui villaggi turistici della costa (indicati come ambiti particolarmente redditizi). L’alleanza Bonavota-Anello era dunque sia strategica (per la spartizione del pizzo e l’influenza territoriale) sia personale (cimentata da legami di fiducia reciproca risalenti nel tempo).
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